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Femminicidio o vittima del Covid?

Femminicidio o vittima del Covid?

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di Pasquale Russo (*)

Solo qualche giorno fa, su queste pagine, esprimevo le mie considerazioni sul suicidio di un’infermiera positiva al tampone che lavorava in un centro Covid. In pochi giorni, il suicidio di un’altra infermiera e infine l’episodio, a noi vicino, dell’uccisione di una giovane laureanda in medicina da parte del compagno, infermiere e studente di odontoiatria. I due giovani convivevano da pochi mesi in un appartamento a Furci Siculo ed erano costretti da diversi giorni a casa a causa della pandemia.

Non intendo esprimermi sull’episodio in particolare, sarà la Magistratura a fare chiarezza. Una cosa però ormai è certa, tanto da indurre a chiedere l’istituzione di SPDC negli ospedali Covid: la pandemia e le necessarie e indispensabili misure di sicurezza stanno seriamente minando la salute mentale degli italiani.

Emblematico, come modello di valutazione patogenetica, lo studio condotto nelle carceri italiane ed ora in corso nelle REMS (residenze per l’espiazione delle misure di sicurezza) dove è stata evidenziata un’incidenza maggiore di disturbi psichiatrici nei detenuti: 4% di disturbi dello spettro

psicotico, 10% di disturbi depressivi, 65% di disturbi della personalità, con significatività statistica rispetto al campione di controllo.

Nessuno di questi disturbi era correlato al reato commesso ma piuttosto alla detenzione e alla convivenza forzata nell’angusto spazio delle celle.

Altri lavori hanno evidenziato la difficoltà di adattamento alla coabitazione in barca, sebbene sia ben altro il contesto e certamente molto più piacevole la situazione.

Purtroppo l’ansia, la paura, il martellamento continuo di cifre di morti, infetti, picchi, discese, linguaggio con cui ormai tutti abbiamo dimestichezza riduce la disponibilità alla tolleranza, all’ascolto dell’altro, e aumenta piuttosto la reattività, la difesa soggettiva dei propri spazi fisici e mentali.

Condivido molto la disponibilità espressa da operatori della salute mentale degli adulti e dell’età evolutivaa consulenze telefoniche. A volte si ha solo il bisogno di parlare e di sentirsi compresi. Nessun uomo èun’isola – ci insegna John Donne – e alzare barriere è sempre negativo. Non è semplice comunicare in tempi d’irrinunciabile isolamento sociale, ma ci possono aiutare i giornali, i libri, i computer, i social, i telefonini.

Sarà banale, ma posso solo concludere augurandomi che tutto finisca presto.

(*) Neuropsichiatra