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Una giornata in USCA: come vivono “le unità speciali del Coronavirus”

Una giornata in USCA: come vivono “le unità speciali del Coronavirus”

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di Giuseppe Zagami

Tamponi a domicilio, visite ai pazienti COVID positivi, screening, Drive-through: queste le principali attività che svolgono tutti i giorni i medici delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA), o come li definisce qualche paziente, “le unità speciali del Coronavirus”.
“Buongiorno Signora, sono il medico USCA, come si sente? Tra poco verremo al suo domicilio per effettuare i tamponi e controllarvi”.
Così, di solito, iniziamo i nostri turni, al telefono con i pazienti che stiamo seguendo. Purtroppo, sempre più spesso, all’altro capo della chiamata sentiamo una voce affranta, stanca, spesso arrabbiata. I nostri non sono pazienti comuni, come quelli che incontriamo ogni giorno negli studi. Quelli seguiti dall’USCA soffrono due volte: per la malattia e per quello che essa porta con sé.
La paziente di cui sopra, per esempio, è in ansia per il marito, che non vede ormai da giorni, nonostante stiano nella stessa casa. Lui positivo, ha correttamente deciso di isolarsi dal resto della famiglia, per provare ad evitarne il contagio.
“Io sto bene dottore, i miei figli anche, venga a visitare mio marito però, l’ho sentito tossire tutta la notte, non respira bene, sono molto preoccupata”.
Finite le chiamate come questa ai pazienti programmati per l’esecuzione del tampone a domicilio, prepariamo tutto l’occorrente per metterci in viaggio; zaino e scatolone alla mano, prendiamo le tute, i calzari, le mascherine, i guanti chirurgici ed i monouso, le visiere, gli occhiali e tutto l’occorrente per effettuare le visite. E dopo esserci assicurati che ogni cosa sia al proprio posto, partiamo.
In casa della succitata signora, i pazienti a cui effettuare il tampone sono cinque, lei, il marito e i tre figli.
Arrivati al domicilio, io e il collega in turno con me ci vestiamo con attenzione e riusciamo a far tutto abbastanza rapidamente.
Saliamo le scale, abitano al terzo piano. Non riesco a nascondere il fiatone, arrivato sull’uscio. Non è facile fare tre piani con i DPI addosso, penso tra me e me, forse cercando di trovare delle giustificazioni valide all’evidente necessità di riprendere allenamenti che ormai trascuro da tempo.
“Signora, buongiorno, sono contento di trovarvi bene, vedrà che il vostro tampone sarà ancora negativo. In quale stanza sta suo marito?”
Entrando, troviamo un paziente affaticato dalla tosse, ma che in generale non ha dei parametri cattivi. Le spalle sono libere e la saturazione è ben mantenuta, con solo qualche decimo di febbre.
Completata la visita ed effettuati i tamponi a tutto il nucleo familiare, non senza qualche difficoltà per il più piccolo, accogliamo volentieri i ringraziamenti della signora. Andiamo via, cercando di porre la giusta attenzione alla svestizione, forse il momento più importante per la nostra incolumità.
Finita anche quella, completiamo il giro dei domicili e torniamo in sede. Adesso ci si deve occupare dell’unica parte noiosa del lavoro che stiamo svolgendo per ora: la burocrazia.
Ė necessario caricare i dati di tutti i pazienti ai quali abbiamo fatto visita e tampone sul portale della Regione e mandare tutto al laboratorio, che effettuerà lo studio del campione prelevato.
A fine mattinata, completato il lavoro, si inizia a preparare ciò che serve per il turno successivo; il pomeriggio abbiamo infatti un Drive-through per un caso positivo in una scuola.
La Dirigente Scolastica quando mi chiama è preoccupata: “Sa, dottore, abbiamo rispettato tutte le indicazioni, i docenti sono sempre stati con la mascherina, ma sono comunque molto in pensiero. Da noi gli studenti sono piccoli, vivaci, non possiamo essere sicuri non ci siano stati altri contatti”.
Decidiamo così di effettuare il tampone a tutte le classi a rischio, anche se non rientranti nella definizione stretta di “contatto”.
Prendiamo l’elenco completo, controlliamo che ci siano le refertazioni dei tamponi rapidi ed i fogli per notificare l’eventuale isolamento qualora qualcuno di loro risultasse positivo. Sistemiamo come al solito gli scatoloni. Sono oltre duecento pazienti, per sicurezza prendiamo 250 tamponi rapidi e partiamo.
Arrivati a scuola, troviamo la dirigente pronta con i tavoli che avevamo chiesto e un paio di sedie. Sistemiamo l’occorrente dividendoci i compiti coi colleghi: refertazioni al tavolo ed esecuzione dei test.
Chiedo di poter fare i secondi. Il contatto con i pazienti mi gratifica, soprattutto se trovi quei bambini che, nonostante l’età, capiscono che la procedura è necessaria e ti ringraziano per non avergli dato troppo fastidio, scambiando anche un cinque a distanza.
Trovato un positivo al tampone rapido, effettuiamo subito quello molecolare di conferma da mandare al laboratorio e spieghiamo alla famiglia il giusto comportamento da seguire.
Finito tutto, torniamo in sede per inserire i tanti testati nella piattaforma della Regione. Riusciamo, per fortuna, a finire tutto prima di tornare a casa, stanchi, ma contenti.
Nonostante l’impegno, a volte non riusciamo, purtroppo, a soddisfare le aspettative dei pazienti che vivono il dramma del Covid-19, e cercano sostegno ed aiuto nelle poche figure che possono darglielo: siamo consapevoli, però, che, per quanto possa essere faticoso, pericoloso o stressante ciò che facciamo, il nostro ruolo rappresenta una grande opportunità per renderci utili, fare del bene e superare, finalmente, questo terribile periodo.