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Lavoro protetto e disabilità psichica: una questione irrisolta

Lavoro protetto e disabilità psichica: una questione irrisolta

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Nell’ambito del  panorama giuslavoristico la disciplina del collocamento mirato e in particolare la tutela prevista per i disabili psichici merita una particolare attenzione sia  per il travagliato iter che ha condotto all’attuale regolamentazione sia per le problematiche occupazionali che caratterizzano il settore.  

Prima dell’approvazione della legge n. 68 del 1999 Norme per il diritto al lavoro dei disabili, meglio nota come legge sul collocamento mirato, il sistema di protezione giuridica per i diversamente abili era affidato ad una logica settoriale e di categorizzazione secondo la quale trovavano tutela inizialmente gli invalidi per motivi di guerra, totali e/o parziali e successivamente vennero incluse altre categorie quali gli invalidi del lavoro, i diversamente abili per motivi sensoriali, i tisici, i profughi.

Nonostante la Costituzione prevedesse il riconoscimento del diritto sociale e  del lavoro con il sistema di regolamentazione che ne conseguiva.

Infatti, il legislatore e gli altri organi dello Stato devono procedere nella direzione dell’interpretazione e della produzione giuridica verso scelte di politica economica che promuovano la massima occupazione.

Così il Dettato costituzionale riconosce lo status di lavoratore,  la sua tutela sociale ed economica, la parità del lavoro tra uomo e donna, tutela per gli inabili nel pieno rispetto del principio di uguaglianza.

Ma la vera novità per la tutela del lavoro dei disabili psichici è frutto di conquiste abbastanza recenti.  Sicuramente il cambio di paradigma  è legato all’approvazione della legge Basaglia, legge 180 del 1980, che gettò le basi per una rivoluzione culturale nel trattamento della malattia mentale.

Fino ad allora i disabili psichici erano insani pericolosi per sé e per gli altri da isolare e contenere nell’ambito di istituzioni totali. Questa regolamentazione ha generato un generale e consolidato atteggiamento discriminatorio proprio per la difficoltà di diagnosticare, comprendere e valutare le malattie psichiche, nelle loro diverse sfaccettature e modalità di evoluzione.

Una regolamentazione sociale supportata anche da molti orientamenti giurisprudenziali. La prima forma di inclusione a favore dei disabili psichici arriva con la legge n. 118 del 1971 che li assimila alla categoria dei mutilati e invalidi civili infatti, sulla base del dettato dell’art. 2, si avviano degli interventi di assistenza sanitaria e di riabilitazione assieme all’accesso all’assistenza economica e di addestramento e qualificazione professionale.

Pertanto la norma del 1971 tutelerà gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico,  gli insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali o funzionali con una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore ad un terzo e i minori di minori di anni 18 che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.

Per l’accertamento degli stati invalidanti di cui sopra era prevista la figura di un medico specializzato in anomalie neuropsichiche all’interno della  Commissione sanitaria provinciale assieme  al medico provinciale, al  medico del lavoro nominato dall’Ispettorato provinciale del lavoro.

Nonostante la novità legislativa, la questione lavorativa dei disabili psichici continuava ad essere materia controversa perché una prevalente giurisprudenza sosteneva l’esclusione degli invalidi psichici dal sistema di collocamento in virtù dell’art. 5 della legge 482/68 invece una ridotta  giurisprudenza sosteneva la tesi opposta, ovvero l’inclusione degli invalidi psichici nel sistema di collocamento, per effetto del dettato della legge 118 del 1971.

Sulla questione si pronuncerà, metà degli anni ’80,  la Corte Costituzionale  con la sentenza del 22 febbraio 1985, n.52 rimandando qualsiasi decisione al Parlamento. La Corte dichiarò il suo disappunto per la discriminazione dell’esclusione degli invalidi psichici dal sistema del collocamento e allo stesso tempo evidenziò l’inadeguatezza di un’eventuale inclusione nel sistema in assenza della previsione di particolari procedure riguardanti l’inserimento lavorativo delle persone affette da problematiche di tipo psichico.

Contestualmente, il Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, con circolare n. 110 del 1980, previde la possibilità di sperimentare l’avviamento degli invalidi psichici così come per le altre categorie di invalidi. A questa seguì un’altra circolare, la n. 109 del 1985 che prevedeva l’istituzione di di appositi elenchi riservati ai disabili psichici in cerca di occupazione.

A questa decisione seguì una decisione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 1072/1986 che escludeva gli invalidi psichici dal sistema del collocamento.

Una sentenza sentenza che scatenò non poche polemiche che obbligò ancora una volta la Consulta con la sentenza n. 50 del 1990 a pronunciarsi sulla materia  e alla liceità dell’esclusione degli invalidi psichici dal sistema del collocamento e rimandare al legislatore la disciplina giuridica.

In sintesi la sentenza del 1990 si pronunciava sulla incostituzionalità dell’art. 5 della legge 482/68 che escludeva il collocamento gli invalidi civili psichici comunque in possesso di capacità lavorative  e anche il dettato dell’art. 20 nella parte in cui non prevedeva che, nei confronti degli invalidi psichici, fosse accertata la compatibilità delle mansioni affidate.

Nel 1997 il legislatore intervenne in materia con legge n. 56 la quale attribuì alle Commissioni regionali per l’impiego la facoltà di predisporre “ programmi di inserimento al lavoro di lavoratori affetti da minorazioni fisiche o mentali o comunque di difficile collocamento, in collaborazione con le imprese disponibili, integrando le iniziative con le attività di orientamento, di formazione, di riadattamento professionale svolte o autorizzate dalla regione”.

La norma dava vita ad un sistema di “collocamento concordato”  con competenze precise per le le Commissioni Regionali per l’impiego che potevano predisporre, in accordo con le aziende, convenzioni volte a predisporre un programma di assunzione indicante qualifiche e requisiti professionali richiesti, oltre che, corsi di formazione ritenuti necessari per lo svolgimento della mansione. Fu, inoltre, prevista la possibilità di svolgere tirocini sul posto di lavoro, in vista di una successiva assunzione tramite richiesta nominativa, in deroga alla regola generale della richiesta numerica. Questo meccanismo di collocamento concordato sarà poco utilizzato anche per mancanza di cultura e di abitudine al concepire il collocamento obbligatorio come terreno in grado di ammettere forme contrattuali aperte, vuoi per una scarsa conoscenza delle effettive possibilità di gestire in maniera non autoritativa l’assunzione del disabile, e anche per l’inadeguatezza delle istituzioni a gestire questo strumento.

Il sistema di tutela cambierà significativamente con la legge quadro sull’handicap l. 104/1992 che inizialmente rimandava alla legge del 1968 per la disciplina del  collocamento obbligatorio per gli invalidi psichici nell’attesa che il legislatore si pronunciasse sulla fattispecie.

Infatti, il punto di svolta arriverà con la legge n. 68 del 1999 e con la equiparazione tra le varie forme di disabilità riconducendole ad una semplice categoria quella di disabili affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e dei portatori di handicap intellettivo e che subiscono per una riduzione della capacità lavorativa superiore pari o superiore al 45%, possono accedere ai benefici del collocamento mirato.

Come possiamo comprendere la complessità che ha caratterizzato questa materia?

Lo zoccolo duro è da ricondurre alla necessità di procedere alla riconciliazione tra categorie quali normalità-diversità, quadri nosologici fisico-psichici. Secondo la definizione fornita dall’OMS la Salute Mentale è uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni. Le definizioni di benessere e di persona sono il risultato di cambiamenti socio-culturali recenti.  Infatti, sempre l’OMS in occasione della 54° Assemblea mondiale della salute nel maggio 2001, fornisce un quadro di riferimento e un linguaggio unificato per descrivere lo stato di una persona con importanti ricadute sulla pratica medica, sulla ricerca, sulla statistica di popolazioni e sulle politiche sociosanitarie.

“La classificazione ICF, l’Italia è tra i 65 Paesi che hanno contribuito alla sua creazione, Classificazione internazionale del funzionamento, disabilità e salute, la disabililità è intesa come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo,tori personali e ambientali che rappresentano le circostanze in cui egli vive.  è uno strumento innovativo per concezione e costruzione, è stato accettato da 191 Paesi come lo standard internazionale per misurare e classificare salute e disabilità.

Il nuovo ICF non propone una classificazione delle conseguenze delle malattie in termini di menomazioni, handicap, e disabilità ma, introduce un sistema di classificazione delle “componenti della salute” e dei suoi elementi costitutivi.

Si parlerà di funzionamento, un termine molto più vasto che ingloba le funzioni corporee come un’interazione dinamica tra le condizioni di salute (malattie, disturbi, lesioni, traumi, ecc.) e i fattori contestuali, quali sono i fattori personali che quelli ambientali, che l’ICF elenca in quanto componenti essenziali della classificazione. I fattori ambientali, con i quali si intendono il mondo fisico e materiale, la dimensione sociale e gli atteggiamenti, interagiscono con tutte le componenti del funzionamento e della disabilità come ostacolo o facilitazione degli stessi.

È proprio sul funzionamento che insiste la riabilitazione psichiatrica quale intervento mirati a rinforzare e mantenere le capacità del soggetto disabile psichico.

La riabilitazione è un insieme di “strategie abilitanti” deputate alla riapertura di canali relazionali, alla ridefinizione del tempo, degli spazi, dell’uso della quotidianità. Essa si occupa, sostanzialmente, della reintegrazione del paziente nella società, aiutandolo a riguadagnare ruoli e diritti perduti, puntando al conseguimento del massimo grado di autonomia possibile, quindi della massima qualità di vita auspicabile.

Il lavoro sul contesto si propone di favorire il reinserimento sociale e/o lavorativo dell’utente, cercando di aumentare il livello di tolleranza degli altri nei suoi confronti. Inoltre esso svolge l’importante funzione di evitare che si profili nei riguardi del paziente un tentativo di adeguamento passivo che non tenga sufficientemente conto della sua soggettività e singolarità.

Riassumendo, tenendo presente che, esistendo una stretta interazione tra individuo ed ambiente, ogni modificazione di uno dei due soggetti relazionali produce un cambiamento sull’altro, la riabilitazione mette in atto un processo di adattamento reciproco secondo due strategie fondamentali: sviluppare le risorse e le abilità del soggetto, a partire dall’identificazione dei bisogni; sviluppare le risorse dell’ambiente in una direzione che amplifichi e rinforzi l’intervento operato sull’individuo.

Un valido percorso riabilitativo dovrebbe produrre la “guarigione sociale” del paziente, portandolo a reinserirsi completamente, dignitosamente e con successo nell’ambiente socio-lavorativo, anche in assenza di risoluzione della patologia.

Uno degli aspetti di grande interesse per la riabilitazione è rappresentato dall’attività lavorativa. Il lavoro è guarigione sociale e quindi intrecciare le maglie di una rete sociale capace di abbracciare la buona socializzazione e la qualità della vita. Un progetto di cura efficace passa anche attraverso una fase pre-lavorativa  e di inserimento lavorativo vero e proprio, anche se il lavoro in questa nostra terra viene, purtroppo, visto come un’utopia, a causa delle particolari condizioni socioeconomiche in cui ci si trova ad operare.

“In particolare con  l’esperienza professionale di assistente sociale nell’ambito del DSM e specificamente nell’area della psichiatra adulti, ho potuto rilevare quanto possa essere importante per un disabile psichico assumere e mantenere nel tempo un impegno lavorativo sia sotto l’aspetto economico perché garantisce un reddito sia sotto l’aspetto psico-sociale per la condivisione di spazi-tempo e occasioni sociali. Parecchi disabili psichici pur godendo di un sostengo assistenziale legato al riconoscimento di invalidità civile e in molti casi anche all’indennità di accompagnamento chiedono di poter essere occupati per realizzare un desiderio di “normalita’’. 

Però, la regolamentazione giuslavoristica prevista dalla legge 68 non soddisfa il bisogno di lavoro dei disabili psichici.

Infatti, sovente le chiamate per l’assunzione diretta non sono immediate e frequenti, i numeri di iscrizione nelle liste provinciali per l’impiego sono alti e le richieste non sempre le soddisfano.

Sovente, ho potuto rilevare quanto sia difficile ottenere un lavoro se si aspetta una richiesta da ditte o aziende private infatti, molto frequentemente sono gli stessi soggetti che fanno ricorso all’istituto dell’esonero.

Altro elemento che influisce negativamente è la carenza di formazione professionale con il conseguimento di titoli professionali e formativi è condizione indispensabile per una buona collocazione nella graduatoria per gli aspiranti al lavoro. Ecco perché è doveroso insistere sulla fase pre lavorativa ossia quella formativa e professionalizzante. A tal proposito dobbiamo ricordare l’importanza del sistema delle cooperative per la componente formativa e di orientamento al lavoro. La congiuntura economica non aiuta soprattutto al Sud dove tradizionalmente il tasso di occupazione lavorativa è tra i più bassi d’Italia sia per inoccupati che disoccupati.

Per fornire una visione del fenomeno voglio riportare i dati di uno studio condotto nel 2014 a Trieste basato sulla raccolta di informazioni in 19 Regioni e 2 Province Autonome per ciò che attiene programmi per la formazione, riqualificazione professionale e inserimento lavorativo delle persone con disturbo psichico promossi dai DSM italiani ci dicono che  le persone inserite nel percorsi di inserimento lavorativo sono circa 13.000 di cui il 56,5% uomini. Il rapporto è di circa 1 donna ogni due uomini inseriti in percorsi di formazione ed inserimento lavorativo; la fascia d’età più rappresentata è compresa tra i 35 ed i 44 anni pari a 4.530 persone (31,45% ); la diagnosi primaria più frequente è il disturbo psicotico (F20-29, ICD-10) che interessa circa la metà delle persone che accedono ai percorsi di formazione ed inserimento lavorativo. Tale disturbo è presente nel 52,42% degli uomini rispetto al 41,37% delle donne. In ogni caso il quadro psicopatologico non sembra influenzare più di tanto l’esito del percorso formativo e/o di inserimento lavorativo.

Come abbiamo già esplicitato nel nostro settore l’inserimento lavorativo va al di sopra dell’opportunità di guadagno legata alla retribuzione infatti, molti pazienti riconosciuti invalidi sono disposti a rinunciare all’assistenza economica pur di trovare un impegno occupazionale che gli garantisce una situazione di normalità.

In conclusione, voglio ricordare il costante aumento della domanda di lavoro da parte delle persone con disturbi mentali. Infatti, il numero di persona con disabilità psichica che trovano lavoro è stabile ma esiguo rispetto alla platea degli aventi diritto.

Gli schemi a responsabilità sociale, le borse lavoro e la formazione professionale rimangono, con una certa frequenza, al di fuori del lavoro competitivo dove prevale una componente assistenziale rispetto a quella evolutiva del diritto al lavoro.

Certamente, in questa direzione l’esperienza del sistema delle cooperative e dei tirocini come forma di inserimento al lavoro finalizzato all’assunzione anche se, si tratta di goccioline nell’oceano a fronte dei numeri del fenomeno.

Mancano o comunque sono molto ridotte le politiche attive soprattutto quelle che prevedono l’erogazione di servizi mirati individuali spesso progettate a livello locale tuttavia, anche dalla legislazione traspaiono i possibili approcci alla strutturazione di percorsi di inserimento, un esempio è lo spazio lavoro ai sensi dell’integrazione voluta dalla l. 328 del 200 ma come abbiamo visto è molto limitato. Andando oltre la normativa, interventi di policy dirette, che potrebbero prevedere percorsi di inserimento che permettano di superare le barriere esistenti e costruire un ponte per la transizione verso il lavoro dei disabili psichici assieme ai lavoratori e imprese, aziende, cooperative.

Patrizia Merlo croas 1039

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