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Tarro ricorda Sabin

Tarro ricorda Sabin

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Torniamo a parlare di Albert Sabin. Il ricordo, stavolta, proviene da un testimone d’eccezione, vale a dire il professor Giulio Tarro, primario virologo emerito dell’ospedale “Cotugno” di Napoli, il quale per anni ne fu l’allievo prediletto fino a esser oggi chiamato a rappresentare la famiglia dello scienziato nel mondo. La maturità non ha cancellato da queste memorie l’entusiasmo di un giovanissimo ricercatore italiano – messinese, per la precisione – che, a fianco dell’Uomo che ha cambiato la storia delle vaccinazioni del secolo scorso, ha affermato di essersi sentito “al centro dell’universo”. Umiltà, disinteresse e, soprattutto, servizio incondizionato nei confronti dell’umanità hanno sempre contraddistinto Albert Sabin. Intervistato, lo scienziato dichiarò di non aver mai voluto brevettare il suo vaccino, che ha salvato milioni di vite umane, per non farlo “risucchiare” dal gorgo perverso delle multinazionali del farmaco. La lezione di Albert Sabin, particolarmente nella congiuntura epocale che viviamo, ci sia da monito perché riusciamo a distinguere la Scienza vera da quella presunta ma, specialmente, la cultura dall’ignoranza, la coscienza dal cinismo. Grazie, Giulio Tarro.

Giuseppe Ruggeri


Albert Bruce Sabin: il ricordo del figlio scientifico

di Giulio Tarro

Fu all’aeroporto di Cincinnati che ebbi la percezione di essere capitato in un altro mondo. L’aereo aveva appena calato la scaletta e sbirciavo con curiosità dal finestrino. D’un tratto non credetti ai miei occhi: Sabin era là, sulla pista di atterraggio. “Certamente, non sarà qui per me”, pensai. Ma per chi poteva essere venuto? Scesi, con la mia valigetta in mano, e, timidamente, gli andai incontro. Lui mi vide, e si affrettò a togliermi la valigia di mano.

Ma è possibile?”, pensavo tra me. “Non solo è venuto a ricevermi all’aeroporto, ma ora, addirittura, mi porta anche la valigia”. Ero proprio arrivato in un altro mondo. Sensazione definitivamente confermata quando Sabin mi accompagnò in un appartamento, proprio di fronte l’università, che aveva fatto preparare per me.

Un appartamento con un enorme frigorifero, strapieno di provviste. Indicandomi la stanza da letto mi augurò una buona dormita che avrebbe dovuto rinfrancarmi dal lungo viaggio. Poi mi salutò e subito crollai in un lunghissimo sonno. Ovviamente, per lo scombussolamento dei fusi orari – il jet-Iag – e per l’emozione, mi svegliai alle dieci di sera. Mi giravo e rigiravo nel letto. Che fare fino alla mattina successiva? Tentai di far passare il tempo leggendo qualcosa. Niente da fare. Ero troppo sù di giri per starmene lì nel letto. Dovevo muovermi, fare qualcosa. Decisi per una passeggiata notturna per le strade di Cincinnati. Ancora oggi Cincinnati è un paesone (300.000 abitanti) perso nella sterminata pianura che costituisce lo stato dell’Ohio. Figuratevi cinquantacinque anni fa. Eppure quella notte, mentre passeggiavo per il centro mi sembrava il centro dell’universo. Guardavo con ammirata commozione edifici che troneggiano nella down-town quali il Carew Tower (un palazzotto di 49 piani che solo le guide turistiche più benevole arrivano a definire un “finissimo approccio Art Deco” o l’ancora più ineffabile Ingalls Building (“Il primo grattacielo realizzato negli Stati Uniti in calcestruzzo armato con il sistema di EL Ransome” riporta sconsolata Wikipedia) o il chiassoso Isaac M. Wise Tempie (un incredibile edificio, metà tempio massonico metà sinagoga). Per me, abituato alle bellezze architettoniche di Napoli (e anche di Messina, nonostante le devastazioni determinate nella mia città dal terremoto prima e dai bombardamenti poi) quel posto, dove avrei dovuto vivere per anni, avrebbe dovuto deprimermi, anche perché avevo letto cose abominevoli sul suo clima (fino a -18 gradi in inverno + 42 in estate). In realtà quella notte – solo, lontano migliaia di chilometri da casa, dai miei amici, dagli affetti – ero felice. Felice, come lo si può essere a 27 anni. E mi ritrovai a pensare a Sabin, a fianco del quale avrei lavorato per anni. Albert Sabin era nato il 26 agosto 1906 nel ghetto di Bialystoick, nella Polonia ancora sotto il dominio zarista, da una famiglia ebrea.

Dell’infanzia non conservava buoni ricordi: “Quando avevo cinque o sei anni – raccontò in un intervista – mentre passavo davanti ad una chiesa insieme ad un amico alcuni ragazzi urlando accusarono noi ebrei di avere ucciso il loro dio. E ci presero a sassate. Ero troppo piccino per capire, un sasso appuntito mi colpì a pochi millimetri dall’occhio sinistro. Poiché sono nato non vedente dall’occhio destro, ho sfiorato la cecità.” A 20 anni Sabin era uno studente modello di

Odontoiatria alla New York University; ma, dopo aver letto il libro “Cacciatori di microbi” di Paul de Kruif, ne rimase affascinato, tanto da cambiare facoltà. Nel 1931 si laureò in medicina e andò a lavorare presso l’università di Cincinnati dove sarebbe rimasto 30 anni a studiare come debellare la poliomielite. “Perché scelsi di studiare la poliomielite? Iniziai quasi per caso.

Avevo appena terminato gli studi di medicina a New York, nel 1931. Un mese dopo, scoppiò un’epidemia di polio. Avevo già fatto delle ricerche su questa malattia, che allora uccideva migliaia di persone … Fu il mio maestro, dottor Park, famoso per aver debellato la difterite, a consigliarmi di studiare la polio: quindi non fu una mia scelta. Fu l’unica volta che feci qualcosa dietro suggerimento di un altro”. Nel 1953, Sabin presentò alla Commissione per l’immunizzazione del NFIP i risultati delle esperienze condotte all’inizio su scimmie e, poi, su 242 persone, (incluse se stesso e le figlie, Debbyed Amy). Il vaccino da lui ideato, una sola dose e, per di più, assunta per bocca (la famosa zolletta intrisa di liquido amarognolo) si prestava più facilmente di quello di Salk ad essere somministrato e, per di più, c’era la possibilità di eliminare con le feci un virus vivo attenuato, con lo scopo di mettere in circolo una popolazione virale a bassa virulenza in modo da poter ottenere un’elevata copertura vaccinale di massa, anche nei confronti degli individui che per svariati motivi non erano stati vaccinati. Nonostante l’innegabile superiorità di questo vaccino su quello ideato da Salk, per tutta una serie di gelosie professionali e altre meschinità, Sabin negli Stati Uniti non venne creduto. Così il suo vaccino trionfò dapprima nei paesi dell’Est. La prima nazione a produrre il vaccino di Sabin su base industriale fu la Cecoslovacchia, poi la Polonia, l’Urss e la Germania Orientale. Dal 1959 al 1961 furono vaccinati milioni di bambini dei paesi dell’Est, dell’Asia e dell’Europa. Poiché nei suddetti paesi non si verificò più alcun caso di poliomielite, furono prodotti e immessi sul mercato notevoli quantitativi del vaccino Sabin “orale monovalente” contro il poliovirus tipo I, e poco dopo, anche il vaccino orale di tipo Il (OPV) e il vaccino orale trivalente (TOPV) valido contro tutti e tre i tipi di poliovirus. Il 1962 è l’anno del trionfo per Sabino La gloria e gli innumerevoli prestigiosi premi (tra cui 40 lauree honoris causa) non intaccano, comunque, il suo sottile humour: “Non mi hanno assegnato il Premio Nobel? Pazienza. Si vede che altri lo meritavano più di me.” E sul suo rifiuto di brevettare il vaccino si scherniva “Ma quale generosità! Era il solo modo di produrlo e somministrarlo su vasta scala, al costo di uno-due centesimi a dose e metterlo a disposizione di chiunque … ” Le luci dell’alba mi strapparono dai miei pensieri e dalla passeggiata. Guardai l’orologio. Le cinque! Tra tre ore avrei dovuto essere nei laboratori dell’Università di Cincinnati. Mi precipitai a casa: doccia, caffè, una scorsa ai pesantissimi dizionari che mi ero portato dall’Italia (temevo di non ricordare ricordavo neanche una frase in inglese) e via di corsa verso la Gloria. Sabin mi aspettava sulla porta del laboratorio, una rapida presentazione dei suoi collaboratori e subito il primo incarico: ripetere, in double blind, uno ad uno, tutti gli esperimenti che avevo compiuto a Napoli. Lo guardai stupefatto. Perchè mai quella richiesta? Mi sembrava una irritante mancanza di fiducia. Comunque, mi misi subito all’opera ed estrassi dalla borsa che avevo portato dall’Italia i flaconi contenenti cellule renali di cavia già infettate da virus erpetico, sieri estratti da pazienti affetti da tumori alla bocca o agli organi genitali, cellule ricavate da un carcinoma laringeo, necessarie per produrre virus. Per fare la verifica double blind o “doppio cieco” Sabin fece cifrare sotto codice segreto quei campioni. Gli stessi sieri ci furono restituiti senza alcuna indicazione e su di essi Sabin, io e i nove colleghi americani dell’équipe, ripetemmo le tecniche messe a punto in Italia. Ovviamente, una volta analizzati i sieri, si ebbero risultati positivi al cento per cento per i campioni prelevati a soggetti malati di tumore, e negativi, sempre al cento per cento, per quelli di pazienti sani: la nuova classificazione tra positivi e negativi corrispondeva perfettamente a quella registrata prima del lavoro e racchiusa in cassaforte. Tirai un sospiro di sollievo; poi il mio sguardo incrociò quello dei colleghi, giovani ricercatori come me venuti da varie parti del mondo. Tempo fa, rimettendo a posto le carte del mio studio, mi è capitata tra le mani una fotografia di quel gruppo di ricerca. In prima fila, Abraham Karpas: siamo ancora molto amici, grande amante della pizza (gliene ho visto divorarne una, enorme, in un minuto, in una pizzeria a Spaccanapoli), ora è direttore del dipartimento di ematologia all’Università di Cambridge e ha ideato uno dei più diffusi test per l’identificazione del virus HIV poi c’è Willy Foster: tecnico di laboratorio, nero come la pece, bravissimo; più volte è stato in Italia su mio invito per insegnare le tecniche di coltivazione dei tessuti; gran donnaiolo, due volte ha perso l’aereo che doveva riportarlo in patria: una per via di una tizia a Capri, l’altra per una studentessa a Napoli. E poi c’è la Principessa. Si, una vera principessa. Iraniana, eccezionale come virologa, mostrava per me un’attenzione che sembrava sconfinare nella passione. Ovviamente la cosa non passava inosservata in laboratorio. E allora giù con i consigli degli amici: <Ma Giulio … Non è affatto brutta. E poi ci pensi… una principessa. Potresti diventare un principe, sposandola> Ora, a parte il fatto che non si diventa principi sposando le principesse, la stirpe della mia collega (mi sia consentito qui non fare il suo nome) era quella dei Cagiari, deposta nel 1921 da Reza Khan Pahlavi, il cui ultimo discendenti fu quel Mohammad Reza Pahlavi deposto nel 1978 dall’lmam Khomeini… ma perché mai mi sto attorcigliando in questo discorso? Ma torniamo a Cincinnati. Giorno dopo giorno, stavo diventando una specie di riferimento per i miei colleghi, (uno tra questi, favoleggiando sulla mia indole siciliana pensava di trovare in me addirittura un “Padrino”); uno dei motivi di ciò era il mio atteggiamento nei riguardi di Sabino Ad esempio, la faccenda dei foglietti. Sabin pretendeva di mettere per iscritto su foglietti (e, addirittura, in alcuni casi, far controfirmare per “accettazione”) ogni sua indicazione sulla conduzione degli esperimenti. Foglietti che gettava poi nel cestino della carta straccia. Foglietti che io, invece, raccoglievo e mettevo in tasca; e questo sia per ricostruire l’iter di tutti gli esperimenti ma, soprattutto, per rintuzzare le scenate di rabbia che avvincevano Sabin quando riteneva che un esperimento fosse stato condotto male per la dabbenaggine dei suoi collaboratori. Queste scenate erano almeno un paio a settimana; ne sarebbero bastate meno per farmi buttare fuori da un qualsiasi altro laboratorio. Nonostante queste Sabin riservava per me un affetto e un’attenzione senza pari: fuori del laboratorio mi trattava come uno di famiglia, (anzi, per usare un suoi termine, un “godchild”, termine che potrebbe tradursi come “figlioccio”). Spesso mi invitava a cena a casa sua e, ancora oggi, serbo nostalgia per quelle bellissime serate in compagnia sua, e delle figlie, della moglie del genero. Quei quattro anni passati a Cincinnati sono stati i più esaltanti della mia vita. E non solo per le ricerche costellate

da pubblicazioni su prestigiose riviste accademiche o per le serate cominciate trascinando ragazze a cena nei ristoranti di Fountain square o di un altro quartiere della downtown, Mt. Adams (osannato dalle solite benevole guide turistiche come la “Montmatre di Cincinnati”). A rendere entusiasmante il mio primo soggiorno americano era stato soprattutto, la percezione di essere capitato in una meritocrazia, in un sistema che riusciva a gratificare chi come me non chiedeva altro che essere messo nelle condizioni di svolgere il suo ruolo di ricercatore. Meritocrazia! Un termine diventato, oggi in Italia, un mantra da salmodiare.