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“Messina tra macerie e incanti”: Storie del terremoto

“Messina tra macerie e incanti”: Storie del terremoto

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di Giuseppe Ruggeri

“Messina tra macerie e incanti” di Giuseppe Ruggeri, con prefazione a cura di Sergio Di Giacomo, è una raccolta di articoli, conferenze e introduzioni che l’Autore ha collazionato e stampato in proprio, per offrire ai lettori uno spaccato di vita cittadina ripercorso attraverso personaggi, libri ed eventi della sua storia. Ma anche attraverso i numerosi musei, presenti in città e dintorni, testimoni della memoria cittadina. Una memoria segnata da grandi catastrofi ma pure dalla tenace volontà di risorgere dalle proprie ceneri dopo ogni disastro.

Parecchie ancora, a Messina, le “macerie” di tante distruzioni, dietro le quali, però, occhieggiano altrettanti “incanti” che un occhio innamorato, come quello dell’Autore, non può non cogliere e far assurgere a simbolo dell’auspicato rinascimento di un’Urbe che fu un tempo – così come la definirono i nostri padri Latini – “civitas locupletissima”.


Nella centralissima via Garibaldi, proprio di fronte al Teatro Vittorio Emanuele, gli avanzi della grande Palazzata languivano divorati dal fuoco che le fasciava con il suo immenso abito di morte. Un cielo di piombo, offuscato dalle colonne di cenere che si sprigionavano da quegli avanzi, faceva da cornice allo sterminato paesaggio di rovine che era diventata Messina all’alba di quel fatidico 28 dicembre.

I soldati russi si facevano largo a fatica in mezzo ai detriti della città fantasma. Erano giovanottoni biondi e alti, gli zigomi sporgenti dai volti chiari e affilati, le loro divise sgargianti davano un tocco di luce e di colore alla desolata monotonia dell’ambiente. Gli stivali ben calzati affondavano nel fango sotto il quale giaceva una città che fino a poche ore prima era stata un pullulare di luci e d’insegne che celebravano il Natale, in vista dell’anno nuovo.

In cima a uno di quegli avanzi, un muretto informe e sbrecciato agli angoli che sembrava vacillare sotto il suo pur lieve peso, al giornalista sembrò di scorgere

una figura di bambina. Una figura viva, per quanto immobile come statua, dalla quale il suo occhio stanco e molto miope fu subito e irresistibilmente attratto. Dalla nebbia del suo sguardo malato, l’uomo riuscì a distinguere la bionda chioma che come un fiume d’oro colava sulla bianca camicia da notte, la fronte alta e pallida, la curva sottile delle mani posate sui ginocchi.

La bambina poteva avere non più di quindici anni ma il suo sguardo assente, perso nella notte di pensieri impenetrabili, le conferiva molto più della sua età anagrafica. Una figura di dolore era, un dolore discreto e sommesso come la quiete verginale della sua posa che si stagliava nel silenzio irreale di quel tragico scorcio di città ferita.

Seppe, più tardi, trattarsi di Bianca Chigo, la cui intera famiglia era perita nel terremoto. Il padre, Teodoro Chigo, era un piemontese sposato con Concettina Ciampoli, figlia del patrizio taorminese Pietro Ciampoli proprietario dell’omonimo palazzo affacciato sul corso principale di Taormina. Incrociò il suo sguardo per un attimo, e in quell’attimo gli parve che la bambina gli trasmettesse, con un’intensità deflagrante, tutta la portata d’una sofferenza senza nome né ragione. Poi, quello sguardo tornò a posarsi sulla falce del porto che di là

intera s’intravedeva dopo il crollo della lunga filiera di edifici che la nascondevano alla vista.

Lo sguardo della bambina aveva abbracciato, per l’ultima volta, il profilo maestoso del mare che si era richiuso dopo aver vomitato tutta la sua furia sulle case, le strade, le piazze della città che vi si affacciava da millenni.

Un marinaio russo, accortosi di lei, si avvicinò premuroso e la sollevò con delicatezza da quel giaciglio. Lei non oppose resistenza, il suo corpicino flessuoso scivolò con dolcezza tra le robuste braccia del soldato prima di abbandonarsi, docilmente, al sonno della morte.

Il giornalista, che aveva assistito alla scena, si ritirò in un angolo e pianse.

Bianca era la cugina di mia nonna.

Questa è la sua storia, narrata nel libro “Un duplice flagello” di Giacomo Longo, pubblicato nel 1911 in memoria delle vittime del terremoto a Messina.