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Neuropsichiatria del COVID-19

Neuropsichiatria del COVID-19

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di Marinella Ruggeri

Le alterazioni neurologiche osservate nei pazienti affetti da COVID- 19 spesso precedono l’esordio dei sintomi più comuni della malattia, e, sono, anche i sintomi che seguono, ossia che durano di più, nel tempo, anche dopo, che la sintomatologia più comune, cioè quella respiratoria, regredisce; a volte, purtroppo, risultano fatali.
Il corredo sintomatologico del COVID-19 include febbre, tosse secca, astenia marcata, ma spesso al momento della diagnosi, i sintomi prevalenti sono mal di testa, malessere generalizzato, difficoltà nella deambulazione. Si stima che il 35% dei pazienti affetti da infezione da SARS-COV-2, sviluppano manifestazioni neurologiche, i cui sintomi più comuni sono vertigini, cefalea, sensazione di ottundimento, ipogeusia e ageusia, iposmia e anosmia, mialgie, in particolare i disturbi del gusto e dell’olfatto sono frequenti nei cosiddetti “pazienti asintomatici” e precedono la sintomatologia respiratoria, pertanto il riconoscimento precoce dell’interessamento virale del sistema nervoso, risulta utile per sospettare la presenza del COVID-19 nelle prime fasi della malattia, e, quindi, per poter iniziare, immediatamente un trattamento farmacologico, che possa evitare l’aggravarsi del quadro clinico e l’insorgenza di severe complicanze.
Le patologie neurologiche che si manifestano sono l’ictus ischemico o emorragico, la trombosi venosa, l’emorragia cerebrale, l’encefalopatia, la meningite, l’encefalite, l’encefalomielite, la mielite, la miastenia gravis, la Sindrome di Guillan-Barrè, la S. di Miller Fisher. Queste sono manifestazioni associate alle forme più gravi della malattia.
Le complicanze di natura neurologica possono essere anche post-infettive, correlate agli effetti che il virus determina a carico del sistema immunitario, la cui risposta in modo sregolato come tipico di un’infezione, può avere effetti ritardati sulle cellule neuronali, con manifestazioni sia a carico del sistema nervoso centrale che periferico.
La capacità del virus di danneggiare i neuroni e indurre infiammazione può quindi promuovere il rischio di contrarre patologie neurologiche gravi. Recenti studi riportano che l’infezione da SARS-COV-2 è associato all’aumentato rischio di malattie neurodegenerative e quindi a un più rapido declino cognitivo, inoltre nei pazienti ospedalizzati, i sintomi neurologici possono derivare anche dall’ uso di alcune combinazioni di terapie antivirali usate per tempi protratti, in particolare, sono state riportate crisi epilettiche da lopinavir/ritonavir, ribavirina.
I sintomi neurologici possono essere anche conseguenza di una invasione virale diretta legata alla tendenza del virus di attaccare le cellule neuronali, in quanto il cervello è un organo in cui si ha una elevata potenzialità di replicazione del virus che può invadere direttamente il parenchima cerebrale attraverso la mucosa nasale ed il bulbo olfattivo.
Altro percorso di ingresso avviene per via ematica, interessa quindi le cellule endoteliali seguite dagli astrociti, per cui le particelle virali raggiungono e danneggiano la microglia.
Altro ingresso del virus avviene attraverso il tratto gastrointestinale utilizzando il sistema nervoso enterico.
L’ aumentata permeabilità della barriera ematoencefalica come conseguenza dell’infiammazione sistemica e del rilascio delle citochine facilita l’ingresso del virus a livello cerebrale dove viaggiando verso il tronco encefalico contribuisce alle alterazioni della funzione respiratoria e cardiaca che si verifica tipicamente nelle fasi iniziali dell’infezione da COVID-19.
Le manifestazioni neuropsichiatriche sono spesso risultato di effetti indiretti mediati dalla risposta citotossica delle cellule CD 8 + dell’ospite e/o dalla tempesta di citochine proinfiammatorie che si verifica nel corso del COVID-19. Queste molecole rilasciate favoriscono la formazione di coaguli con conseguente tromboembolia.
Uno studio pubblicato su Lancet Psychiatry descrive lo sviluppo di psicosi a distanza, nei pazienti (125) ricoverati nelle terapie intensive degli ospedali di tutta la Gran Bretagna. Gli autori, neurologi e psichiatri dell’Università di Liverpool evidenziano, sia, la frequente comparsa di ictus, che di stato confusionale con bruschi mutamenti di personalità, e, in alcuni casi, l’insorgenza di psicosi, in assenza di storia pregressa di psicopatologia. L’etiopatogenesi può ricercarsi, oltre, che nella invasione cerebrale del virus, anche, nella condizione prolungata, in cui si vengono a trovare i soggetti malati da COVID-19. Scarsità di ossigeno, ventilazione forzata, sedazione profonda, mancanza di sonno, prolungata immobilità, assenza di relazioni sociali, impiego di farmaci sedativi come propofol, benzodiazepine, oppiacei insieme ai farmaci somministrati per l’infezione.
Un reportage pubblicato dal New York Times ha raccolto le testimonianze di diversi pazienti, e quelle più significative, descrivono una fase di “delirio” ospedaliero, che se pur reversibile, appare spaventoso e devastante per chi lo ha vissuto.
Alla luce di questi studi e delle riflessioni che ne derivano l’interessamento del sistema nervoso e le conseguenze neuropsichiatrica sono da attenzionare nel breve e lungo termine dopo l’infezione da coronavirus e, rappresentano, un elemento predominante con necessità di terapia e di monitoraggio nella fase del PRE- COVID e del POST-COVID.