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Noterelle riabilitative del padre del libraio: “Il quadro”

Noterelle riabilitative del padre del libraio: “Il quadro”

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di Filippo Cavallaro 

L’avventura di libreria indipendente è durata tre anni. Da marzo dello scorso anno mio figlio, al mattino, non alza più la saracinesca della libreria. Un grosso impegno fu quello di febbraio 2020 con i resi, con la chiusura dei rapporti con i fornitori, con la definizione delle utenze, con lo smontaggio e la cessione dell’arredamento. 

Fortunatamente l’ha chiusa prima che a causa della pandemia si chiudessero tutte le attività. Di queste molte non riapriranno più. Molto impegnativo è oggi resistere, con l’obbligo degli ingressi contingentati, evitando iniziative che richiamino il pubblico, per il rischio di infezioni, ma soprattutto con la comodità, da tutti acquisita, di comprare on line. È duro dover aspettare ristori o riduzioni fiscali.  

Lui sta continuando l’attività come “book influencer”, con uno spirito libero, da libraio che consiglia al cliente, senza l’impegno di un negozio da mandare avanti. 

Mi sento ancora il padre del libraio, e, se permettete, continuerei a farlo. L’esperienza del negozio mi fa sentire vicino a quanti debbono mantenere viva una attività commerciale o artigianale, soprattutto perché hanno bisogno che la gente sia libera di circolare, di incuriosirsi … camminando, passeggiando. Attività che tengono vivace l’economia ma anche il corpo e la mente.  

Il mio libraio “influencer” mi consiglia, ed insieme scopriamo autori e testi interessanti, spesso solo perché incuriositi da un titolo. Un esempio è “Mamma è matta, papà è ubriaco” scritto da Fredrik Sjöberg e pubblicato in Italia da Iperborea per la traduzione di Andrea Berardini.  

La storia parte dalla immagine di un quadro a Stoccolma, dove sono ritratte due cugine adolescenti ad opera del patrigno di una di loro. Si tratta dell’opera di un artista che, malgrado un indubbio talento, non è riuscito a farsi strada come pittore. Si scopre, nelle ultime pagine del racconto, che la compagna del pittore, mamma della ragazza bionda con le trecce, ritratta nel quadro, è diplomata in fisioterapia.  

Il papà ubriaco è l’artista, non si impose come tale, probabilmente, perché non aveva il bisogno di produrre per guadagnare e vivere del suo lavoro. Anche la sua compagna, grazie ad una rendita, non aveva bisogno di lavorare, non le piaceva avere contatti con le persone, preferiva la natura incontaminata, e, così, libera, poteva dedicarsi, nel mezzo della macchia mediterranea, ad ammirare il cielo stellato ed a pensare ai misteri dell’universo.  

Si tratta di una storia accaduta nei primi decenni del secolo scorso, con protagonisti gli artisti che prima si erano raccolti a Parigi, poi si erano spostati in Costa Azzurra ed infine in Liguria sulla Riviera di Ponente. Fuggivano dalla guerra cercando la libertà e la bellezza.  

Si incontrano, nell’intreccio di relazioni artistiche e flash biografici, personaggi molto famosi, come: Picasso, Modigliani, Brecht, e la numerosa comunità scandinava con Bull Hedlund, Beer, Henning, Ågren, Derain, Cendrars.   

Tutti si spostano spesso, alla ricerca di bellezza, ma anche per fuggire dalla pandemia, dalla spagnola, che comunque a Mentone, li raggiunse e qualcuno ammalò.  

Ripenso alla fisioterapista del romanzo e mi chiedo se, quando studiava, non ebbe modo di rendersi conto che la sua misantropia o, forse solamente una afefobia non le avrebbero permesso di esercitare quella professione. 

È comprensibile che cento anni fa la giovane collega non sapesse cosa fosse la fisioterapia, e possa averla considerata solo come una disciplina nella quale si studiano formule fisiche ed applicazioni di fenomeni fisici, una conseguenza derivata dalla rivoluzione industriale, legato alle macchine, senza bisogno di avere a che fare con le persone. 

Quelle dell’area della Riabilitazione, oggi codice Ateco 86.90.21, sono professioni di aiuto alla persona, per esercitarle bisogna stare vicino al paziente, usare il tatto, le tecniche di presa, il contatto, il tocco. Probabilmente, allora, prese quel titolo di studio solo perché ben si addiceva ad una ragazza di buona famiglia. Non aveva fatto caso che l’emblema di una delle associazioni dei fisioterapisti scandinavi è una croce con due strigili, e che questi sono gli strumenti attraverso i quali sin dall’antica Grecia si strofinava il corpo di una mistura di olio e pomice per detergerlo. 

Purtroppo, è ancora più strano, che oggi, ad un secolo di distanza, non lo si comprenda senza tenere conto della necessità del tocco per fare la fisioterapia. Della necessità del contatto (stretto?) tra terapista e paziente, della complicità che bisogna tessere tra i due in modo da affrontare la malattia, e se nelle fasi acute evitare/ridurre il danno, o nel cronico limitarne gli esiti. Ieri confrontandomi con un collega, commentavamo sulla fisioterapia: Un amico comune al quale, dopo un intervento chirurgico, abbiamo da subito consigliato, attività motorie da fare da solo per non perdere l’elasticità delle strutture e le libertà articolari, esercizi terapeutici da fare in autosomministrazione. In quella occasione, a lui, estraneo alle conoscenze mediche, facemmo un bel discorsetto per tranquillizzarlo, sostenendo che se il corpo viene tenuto in esercizio può imparare strategie d’azione, e che per l’apprendimento, anche in condizioni patologiche, non c’è un termine. Il collega ieri mi diceva di averlo incontrato, e che ne aveva ricevuto una confidenza: “il chirurgo allora gli aveva detto che non c’era speranza, troppo il danno, importante la demolizione chirurgica. Sarebbe rimasto con una limitazione motoria:”- “Recentemente ad una visita di controllo lo stesso chirurgo che l’ha operato è rimasto sorpreso del recupero motorio. Ha voluto sapere degli esercizi. Ha apprezzato l’efficacia della fisioterapia.” 

Non è corretto dare fiducia al consiglio degli amici … ma … Conviene!