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Il paziente del ventunesimo secolo: il disagio psichico dei cambiamenti climatici

Il paziente del ventunesimo secolo: il disagio psichico dei cambiamenti climatici

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di Michele La Versa* e Gaia Garofalo*

A distanza di quattro anni dalla fondazione del “Fridays for Future”, a poco sembra essere servita l’attività dei giovani attivisti. La grande opera di sensibilizzazione nei confronti del riscaldamento globale, e più in generale nei confronti del cambiamento climatico, non è valsa ad evitare che alcune fra le più grandi potenze mondiali si ritirassero dall’Accordo di Parigi. È ormai sotto gli occhi di tutti che il nostro mondo stia cambiando: eventi climatici di portata eccezionale sempre più frequenti, temperature fuori dalle medie stagionali, sovvertimento della biodiversità e dell’integrità ecologica sono ormai fatti di piena attualità che nella nostra percezione risuonano sempre meno come un allarme o un’emergenza. Tuttavia le strategie di adattamento al cambiamento potrebbero presto non essere piú facoltative ma necessarie per la sopravvivenza.

Un nuovo documento dell’OMS, lanciato in occasione della conferenza Stoccolma+50, evidenzia che la lotta al cambiamento climatico deve tenere conto dell’impatto che questo ha sulla salute mentale, esortando i Paesi a includere il sostegno alla salute mentale nella loro risposta alla crisi climatica.

L’analisi della situazione attuale mette infatti in luce come nella popolazione generale emerga un ampio ventaglio di patologie, alcune del tutto nuove, altre già note alle cronache nosologiche, fortemente correlate al cambiamento del mondo in cui siamo stati da sempre abituati a vivere. Recenti ricerche hanno dimostrato che l’aumentata frequenza di eventi climatici estremi, inclusi ondate di caldo, umidità, piogge, allagamenti, incendi e siccità, si associa a stress psicologico, peggioramento della salute mentale, più alta mortalità tra i soggetti con preesistenti condizioni psicopatologiche, incrementata ospedalizzazione per patologie psichiatriche e aumentato tasso di suicidi.

I pazienti che visitiamo tutti i giorni si ritrovano quindi influenzati dal contesto in cui vivono, più profondamente di quanto avremmo potuto immaginare. È ormai noto da tempo che alcune situazioni inerenti l’ambiente in cui un soggetto è immerso, o la repentina variazione dello stesso, possano essere considerati fattori influenzanti per l’insorgenza di particolari patologie (come l’insonnia, l’ansia, l’abuso di sostanze o la depressione) o per lo sviluppo di altre condizioni che normalmente potrebbero rimanere cronicamente latenti, come la schizofrenia. Quindi il cambiamento climatico, con il conseguente cambiamento macroscopico dell’ambiente e della biodiversità può portare a diverse risposte emotive e stress mentale fino a vere e proprie manifestazioni psicopatologiche che possono includere anche le cosiddette “sindromi psicoterratiche”.

Le teorie olistiche e biofiliche concepiscono l’essere umano come profondamente connesso agli altri esseri viventi con cui condivide l’ambiente. Queste ci portano a considerare la natura come una vera e propria fonte di salute, per cui la conservazione delle risorse naturali viene insitamente riconosciuta come necessaria per la promozione di un buono stile di vita e quindi di un buono stato di salute. In realtà il modo in cui le persone percepiscono la natura che le circonda dipende in gran parte da fattori culturali, fattori personali, e dall’idea che le persone hanno di “natura incontaminata”. Per esempio, nelle società occidentali, l’urbanizzazione spesso non permette alle persone di avere un contatto con ambienti naturali, al punto che il contatto con un parco urbano viene percepito come esperienza di “natura”. Alcuni studi riportano che le persone abituate a vivere in aree urbanizzate, quando esposte ad ambienti con caratteristiche naturali più evidenti (spazi verdi, fauna selvatica) mostrano una minore prevalenza di depressione, ansia e stress. Ad esempio i residenti di aree urbane che si sono trasferiti in quartieri con maggiore vegetazione hanno riportato una riduzione di sintomi depressivi fino all’11% e il numero di casi di ansia e stress è diminuito rispettivamente fino al 25% e 17%. Un altro studio ha evidenziato che la presenza di aree verdi sufficientemente ampie in presenza di una comunità può ridurre il rischio di schizofrenia.

Inoltre è stato dimostrato che le persone che risiedono nelle zone con una minore quantità di spazi verdi hanno un rischio del 24% più elevato di sviluppare la schizofrenia.

I benefici che l’ambiente naturale può avere sulla salute mentale potrebbero essere associati a diversi meccanismi e pathways psicologici, in particolare la letteratura riporta una importante riduzione dei fattori di rischio per patologie psichiatriche come un miglioramento del profilo ipnico, una riduzione dello stress cronico, e una diminuita incidenza di alcune condizioni come ansia, depressione, abuso di sostanze e ADHD (Disturbo da deficit dell’attenzione/Iperattività).

Ma quanto influiscono i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità sulla salute mentale?

Nessuno studio è stato ancora in grado di determinare il livello di biodiversità necessario affinché un ambiente possa apportare beneficio alla salute mentale.

Una possibile interpretazione dei dati ci indica che se non si superasse una certa soglia, la perdita di biodiversità potrebbe non avere effetti negativi diretti sulla salute mentale. Al contempo sembrerebbe che l’esposizione alla biodiversità possa essere positiva per la salute mentale di individui provenienti da paesi ad alto tenore di vita, cresciuti con condizioni sociali favorevoli (ad esempio nei paesi del Nord Europa e del Nord America); mentre l’esposizione ad una maggiore biodiversità potrebbe non mostrare gli stessi benefici in coloro che vivono in condizioni sociali più povere. Infatti è stato dimostrato che la relazione tra biodiversità e salute mentale sia differente a seconda della sensibilità dei singoli individui, e che possa essere modulata da fattori socio economici, preferenze individuali, luogo di residenza, occupazione, cultura, sesso ed età. Tuttavia, un limite che emerge dagli studi citati è che la maggior parte di essi si è concentrata sugli ambienti urbani dei paesi ad alto reddito tralasciando i paesi a basso e medio reddito.

È stato dimostrato che le manifestazioni patologiche non possono essere attribuite esclusivamente a problemi psicologici o familiari – come ansia, frustrazione e depressione – ma possono derivare da una disconnessione dal mondo naturale. La perdita di biodiversità può infatti avere un impatto sugli individui e sulle comunità attraverso risposte emotivo-affettive che non derivano necessariamente da un evento traumatico – come un terremoto o un cataclisma che può portare a disturbi dell’adattamento – ma anche dalla semplice osservazione degli effetti del cambiamento climatico in tutto il mondo.

Albrecht et al. nel 2007 hanno rilevato l’esistenza di una forma di disagio emotivo derivante dalla consapevolezza che l’umanità si trova ad affrontare i problemi dovuti al cambiamento climatico. Questo disagio emotivo è stato inquadrato in diverse sindromi, definite “psicoterratiche”, che comprendono fenomeni come l’eco anxiety, l’eco guilt cioè il senso di colpa provato quando si viola l’ambiente, l’eco paralisys ovvero il senso di impotenza davanti ai cambiamenti climatici, il lutto ecologico e la solastalgia, cioè il malessere che ci pervade di fronte ai disastri ambientali. In più, le preoccupazioni per la salute della biosfera (ad esempio, osservare l’impatto lento e apparentemente irrevocabile dello squilibrio ecologico, provare frustrazione per l’incapacità di far fronte al cambiamento climatico e ansia per il futuro delle generazioni successive) attualmente tendono ad essere vissute in modo più intenso, in quanto le persone sono costantemente immerse nell’informazione e nella comunicazione.

Purtroppo nel DSM-5 o nel  ICD-11 non ci sono ancora specifici riferimenti ai disturbi mentali legati al cambiamento climatico, tuttavia in risposta ai crescenti effetti sulla salute mentale di eventi di lunga durata legati al clima, gli psicoterapeuti si sono fatti pionieri di un nuovo campo di trattamento definito “ecopsicologia”, dedicato allo studio della connessione tra i cambiamenti ambientali causati dall’attività umana e le difficoltà psicologiche derivanti dalla nostra crescente esperienza di questi cambiamenti. Ad oggi la psichiatria e la psicologia che si occupano di ecologia e biodiversità stanno affinando i loro strumenti di studio e proponendo ulteriori studi mirati volti a indagare la complessa interazione con i determinanti sociali, i disastri naturali (uragani, inondazioni, incendi e ondate di calore di breve durata) e le emergenze industriali e tecnologiche (disastri tecnologici innescati da rischi naturali, o “natech”).

In conclusione, il professionista della salute non può esimersi dal sensibilizzare i pazienti al cambiamento climatico e alle conseguenze che porta nella nostra salute; la lotta al cambiamento climatico è diventata la sfida che tutti gli uomini di questo secolo devono affrontare. “Molte altre lotte sono legittime. Ma se questa verrà persa, nessun’altra potrà essere condotta.” (Appello pubblico di scienziati e uomini di cultura – Le Monde, Agosto 2018)

*Specializzandi in Psichiatria

Dipartimento BIOMORF-III Missione

Università degli studi di Messina