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“Credenza di sogni e ricordi” libro di Pietro Venuto, la recensione di Ella Imbalzano

“Credenza di sogni e ricordi” libro di Pietro Venuto, la recensione di Ella Imbalzano

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di Ella Imbalzano

Eredita, Pietro Venuto, autore di Credenza di sogni e ricordi (Pungitopo 2029, pp.120), dal nonno paterno la vocazione al narrare. Non favoleggia però come lui , con epico-lirico spirito nativo, dinanzi a una «ciurma»  di parenti avidi ascoltatori, della sperimentata America, delle «rischiose navigazioni oceaniche» e degli «scontri» con bande di compatrioti immigrati.  Lo scrittore, piuttosto, sceglie il lieto, doveroso rischio di una rivisitazione  millimetrica del passato, condotta con seria levità. Una rivisitazione nella quale  trovano   critica lettura  di un  vissuto distillato nell’orizzontale quotidiano e nella verticalità di fulminei ripescaggi memoriali, la società, la Storia, l’arte, la cultura, calate in episodi di un Novecento ricco di impulsi, e in figure emblematiche di snodi cruciali. La vita vibrante coesiste con l’ educazione al dopo, guadagnata  anche sul campo di una  diretta osservazione della morte quale spegnimento mitigato da una  sensibilità cristiana. Predomina, in una sorta di cinematografia, la memoria scandita per  situazioni e personaggi depositari di significati che travalicano l’immediata esperienza per offrirsi, con esemplarità priva di enfasi, quali chiavi di comprensione dell’umano e di avviso del mistero da cui esso è avvolto.

     Coesistono il mistero e l’ora, il qui e l’altrove, nel libro di Venuto.  Pertanto, un’accattivante sequenza aggettivale designa subito la Saponara natia, «paese enigmatico, misterioso, ermetico, astruso, esoterico», mentre la successiva visualizzazione fisica del suo invecchiamento veloce dentro una «tinozza naturale» ne tempera la preziosità, ridonata però dall’abbraccio dei monti Peloritani e dalla carezza di «mitiche fragranze» dal Tirreno. Vibra, altresì, l’ attrazione dell’ignoto consegnato a dimensioni familiari da un immaginario collettivo che tramanda storie di gnomi, folletti, umanizzati orsi giocosamente trasgressivi, di madonne, santi e «parrini» festosamente quasi giustiziati con il rogo; e con quell’attrazione coabita il timore che elabora superstizioni di piccoli mostri (i  «tiraciatu»)  in agguato per aspirare l’alito ai lattanti. Si tratta di sistematici recuperi, indizi di quella tensione sacrale  di un mondo interiore che sortisce la definizione del borgo  amato quale «casa dell’anima» e che  da conca affossata lo promuove a «scrigno», a «spazio cosmico» dei sogni.

       La scrittura ordinatrice, ingaggiando una lotta contro la polverizzazione dei ricordi, ne diventa teca di meraviglie: «credenza», appunto,lemma chiosato anche nell’accezione di «fede», «convinzione» comunitaria.  Fondata su un antico rispetto, la parola, massimamente definitoria e, a tratti, organizzata su agili geometrie stilistiche e strutturali, non trascura, con altrettanto scientifica attuazione, il dato espressivo locale in cui trova coagulo e forza la temperie di un mondo concretamente circoscrivibile. Ne risulta un realismo che, conveniente alle relative sponde documentarie, incide con apparente disinvoltura la  Storia nella casualità di presunte bottiglie di salsa («buatte») che, rotolate per terra dalla borsa della spesa della nonna paterna, si rivelano bombe frettolosamente abbandonate  nella fase  declinante del  conflitto bellico. Un realismo che imprime il segno di un atavico costume nella zia  «cattiva» (secondo la matrice filologica  resistente ancora, sottolineata da Venuto) perché castigata alla reclusione dalla vedovanza e al lutto dalla scomparsa prematura del figlio. Un realismo appuntato sui visibili lasciti dell’ultima guerra snoda la vicenda di amore offeso di un  musicista  «intrappolato» in un passione che, al di là del fallito esito di un «omicidio d’onore», si fa specimen di un’assolutezza del sentire nel convocare in parossistiche note   le «raggiate onde spumeggianti» , mentre lo sguardo di lui fissa le Eolie defilate in dolce abbandono: un personaggio, questo, come di romanzo, eppure pienamente vero. Vero tutto, e tutto in movimento nell’opera, come simboleggiato da quella ricorrente  moto Vespa  che è oggetto di una trama di ricordi principalmente di un padre dall’iconica solarità di etica impronta  trasmessa quale asse portante di un personale mosaico di visioni.