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“La Sicilia bombardata”

“La Sicilia bombardata”

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(Nello Musumeci, Rubbettino Editore, 2023)

di Giuseppe Ruggeri

Di Sicilia non si dirà mai abbastanza. E la Sicilia c’è per intero, ci sono anzi le “cento e più Sicilie” di Bufalino in questo saggio giornalistico nato da una sicura passione per la storia ma ancor più per i siciliani e la loro, di storia. Una storia che, sfogliando queste pagine, sembra si distanzi sempre più da quella tradizionale, insegnata nelle scuole e ripetuta nei salotti del politically correct.
Col piglio del cronista prestato alla politica, e pertanto civilmente proteso verso la ricerca di una verità da comunicare sebbene la consegna del silenzio, in casi del genere, proteggerebbe dall’amarezza e dall’indignazione – Nello Musumeci discende, come Ciàula nel ventre della zolfatara, nei meandri del più oscuro dei medioevi isolani. Quello dei bombardamenti scatenati degli alleati angloamericani sulla Sicilia del secondo conflitto mondiale è uno scenario che immerge da subito il lettore in una specie d’inferno dantesco le cui bolge si susseguono impietose fino a stritolare e quindi annullare la coscienza.
Nessuna conoscenza, tuttavia, è più reale di quella che emerge da tanta sofferenza, da un dolore tanto straziante quanto irreparabile. Prova ne sia che le testimonianze d’archivio, nella cui ricognizione e vaglio l’Autore non si risparmia, disegnano con rara nettezza e lucidità una terra ferita da cima a fondo, un universo pullulante di piccole grandi storie di eroismi, disperazione, miseria, ciascuna delle quali contribuisce ad assemblare un mosaico tanto atroce quanto inspiegabile.
E’ l’immorale etica della guerra – della cecità dell’uomo in senso evangelico verrebbe da aggiungere – a prevalere sul resto. Un’etica che non si fa scrupolo di attraversare uno per uno tutti gli stadi dell’involuzione umana fino al ritorno nelle caverne, ove si consumava il rito del cannibalismo, della bieca, cioè, eliminazione dei propri simili in nome di una delirante affermazione di onnipotenza.
Ma c’è molto di più nel testo di Musumeci. Il quale, nel tracciare le coordinate di un’invasione che in poco più di tre anni mieté diecimila vittime con una netta maggioranza numerica di civili rispetto ai militari, indaga mettendo a nudo, senza filtri, il madornale difetto di comunicazione di cui si è resa responsabile la classe dirigente e politica del dopoguerra.
Miti circonfusi da aureole gloriose e intoccabili – e inattaccabili – primo tra tutti quello dei “liberatori” che entravano tra ali di folla acclamanti distribuendo viveri e cioccolatini crollano miseramente dinanzi alle cronache degli eccidi che si susseguirono in terra di Sicilia all’indomani dello sbarco del 1943.
Ci tiene a precisare, l’Autore, che non si trattò di episodi isolati ma di una vera e propria strategia intimidatoria, ideale prosecuzione del clima terroristico teso a “fiaccare il morale della popolazione” instauratosi con gli assalti aerei iniziati nel luglio 1940. I cacciabombardieri americani e inglesi che, in poco tempo, passarono dal colpire obiettivi militari e infrastrutture a seminare morte e distruzioni tra i civili, con una studiata alternanza d’incursioni – di giorno quelle americane, di notte quelle inglesi – ne erano stati un iniziale, lampante esempio.

E i siciliani? Poche le reazioni, i sabotaggi che gli alleati aspettavano, le azioni di contrasto all’ex-alleato tedesco. Forse perché in Sicilia il movimento antifascista, fatta eccezione per alcuni intellettuali medio-borghesi e la mafia organizzata, era poco rappresentato? La risposta che ci fornisce l’Autore è diversa, secondo lui vi fu in realtà una scarsa partecipazione emotiva dei siciliani a una guerra non voluta e della quale non capivano il motivo. E agì pure in tal senso, almeno secondo chi vi parla, una sostanziale apatia verso qualunque forma di potere costituito. Gli è che i siciliani, specie dopo l’Unità del Regno d’Italia, sono stati degradati al rango di colonia, un granaio cui attingere alla bisogna e nulla di più. E pertanto, in virtù del “cambiare tutto perché nulla cambi” di tomasiana memoria, essi non hanno mai effettivamente creduto ad alcuna rivoluzione dopo tutte quelle intraprese – e fallite – nel corso di un millennio e più di dominazioni.
Il siciliano che viene fuori queste pagine, e che la retorica angloamericana – probabilmente pervasa da ancestrali livori di cesariana provenienza – giudica involuto e trasformista, sempre pronto a salire sul carro del vincitore, è insomma individualista e, di fatto, rassegnato. Una vittima nello spirito oltre che nel corpo, sottomesso a mille e oltre tentativi di violare la sua integrità territoriale – la simbiosi cioè in grado di legarlo al proprio suolo d’origine e dunque al correlato carico di memorie e sentimenti – e che ha pertanto sviluppato nei secoli la rara capacità di adattarsi a ogni situazione, per negativa che sia.
Così avvenne in quegli anni bui, quando la dignità di ogni siciliano – di città o campagna che fosse – fu calpestata con sistematicità, secondo il perverso disegno di destabilizzazione degli occupanti che non si fecero scrupolo di distruggere uno dopo l’altro – proprietà, case, animali – i simboli dell’appartenenza, della territorialità insulare. E’ la logica della guerra – si dirà – e anche questo è vero, ma tanto più in profondità ed efficacemente tutto ciò può agire quanto maggiore è la penuria di mezzi e la miseria in cui, scientemente, le masse sono state abituate a vivere. Come non individuare precise responsabilità storiche in tale processo?
Musumeci tira infine le somme e conchiude, a ragione, che, nella Sicilia di quegli anni, non ci sono stati occupanti “buoni” e “cattivi” e che tanto gli angloamericani quanto i tedeschi, seppur in tempi diversi, si sono resi artefici di atrocità a dir poco agghiaccianti nei confronti della popolazione inerme. Una popolazione verso cui hanno dato sfogo alle più oscure pulsioni dell’animo, a quella smania di sopraffazione cieca e crudele, cioè, che spinse Caino a condurre Abele nei campi per dargli la morte. Questa è la guerra, questa è ogni guerra. Come le tante che si consumano oggi in oltre cinquanta regioni del mondo. Senza pietà. Senza umanità. Un’umanità della quale, da tempo, molti di noi hanno ormai fatto a meno.