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“Messina tra macerie e incanti”: Lo Stretto e i suoi miti

“Messina tra macerie e incanti”: Lo Stretto e i suoi miti

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di Giuseppe Ruggeri

“Messina tra macerie e incanti” di Giuseppe Ruggeri, con prefazione a cura di Sergio Di Giacomo, è una raccolta di articoli, conferenze e introduzioni che l’Autore ha collazionato e stampato in proprio, per offrire ai lettori uno spaccato di vita cittadina ripercorso attraverso personaggi, libri ed eventi della sua storia. Ma anche attraverso i numerosi musei, presenti in città e dintorni, testimoni della memoria cittadina. Una memoria segnata da grandi catastrofi ma pure dalla tenace volontà di risorgere dalle proprie ceneri dopo ogni disastro.

Parecchie ancora, a Messina, le “macerie” di tante distruzioni, dietro le quali, però, occhieggiano altrettanti “incanti” che un occhio innamorato, come quello dell’Autore, non può non cogliere e far assurgere a simbolo dell’auspicato rinascimento di un’Urbe che fu un tempo – così come la definirono i nostri padri Latini – “civitas locupletissima”.


Da sempre in Sicilia aleggia l’aura dei miti. Miti che si mescolano alla storia, intrecciandosi in modo talmente fitto con la realtà da diventarne una sorta di “doppio”. E, in una terra dove la metafora domina sul resto e qualunque realtà è destinata a diventare simbolo del mito e viceversa, tutto questo dovrà pur significare qualcosa.

Ricordo una conversazione avuta qualche anno fa con Peppino Leone, un grande della fotografia siciliana, amico e sodale di Sciascia, Bufalino e Consolo. Lamentavo con lui l’assenza, nella mia città, di una solida tradizione urbana, a mio giudizio cancellata dalle catastrofi naturali e belliche che l’avevano progressivamente privata dei suoi principali riferimenti culturali. Al che Leone, divertito e meravigliato, mi obiettò che la tradizione di Messina è tutta in quel breve braccio di mare che separa la Sicilia dal continente: lo Stretto. A me, messinese deluso che si rammaricava per la progressiva perdita di riferimenti identitari collettivi,

Leone eccepiva insomma, e a ragione, che, se è vero che il patrimonio storico-architettonico di altre realtà urbane isolane – come Catania, Palermo, Siracusa – supera quello di Messina, Messina ha pur sempre lo Stretto.

Lo Stretto, sì. Un istmo al quale non badiamo quanto dovremmo, forse perché l’abbiamo davanti agli occhi ogni giorno. Un contenitore di memorie che sconfinano spesso e volentieri nel sogno. O, per meglio dire, nel miraggio di cui è emblema il fenomeno di Fata Morgana. Cos’è, infatti, Fata Morgana se non lo specchiarsi della realtà nell’altro da sé, in quella sua parte irreale che tuttavia non avrebbe alcuna consistenza se a sostenerla non ci fosse proprio la realtà dalla quale essa ha preso origine? E tutto questo si accorda anche con il mito di Risa, la città immaginaria di cui ha recentemente scritto Michele Ainis, una sorta di Messina al contrario, un rovescio di sé elegantemente raffigurato con le parvenze di un sogno.

Risa o la logica dei contrari, il mito degli specchi che riflettono immagini non corrispondenti alla realtà, la memoria che appare e scompare come in un sogno. Archetipo di questo sogno cos’altro può essere se non il fenomeno della Fata Morgana, quando cioè la città

si specchia in se stessa dando luogo a un miraggio senza tempo?

Con uno stile leggero e venato di lirismo, Michele Ainis, smessi provvisoriamente i panni del costituzionalista, veste quelli del romanziere. Del romanziere epico per essere precisi, il quale racconta la sua città – Messina – attraverso la filigrana di un ricordo che non riesce a materializzarsi poiché va via via smarrendo i suoi stessi connotati.

Rientrato in città dopo molti anni trascorsi altrove, il protagonista affronta il dramma della memoria perduta, una storia fatta di immagini che quanto più tornano a riaffacciarsi alla mente tanto meno corrispondono alla realtà presente. Un gioco, questo, in cui a svolgere un ruolo decisivo è la cesura profonda che terremoti e catastrofi hanno segnato nell’inconscio collettivo dei messinesi. Una cesura che ha abolito i ricordi in modo traumatico, tanto da far prevalere su Messina l’immagine della città gemella che ne costituisce l’esatto contrario. In altre parole, quella riflessa dallo specchio – Risa, per l’appunto.

Il breve istmo che la separa Messina dal continente racchiude nel suo scrigno prezioso elementi naturali e mitici che precorrono la storia di Sicilia, accreditandolo quale autentico contenitore d’identità.

Un’identità complessa, come peraltro si deve a una città marinara che nel corso dei millenni ha accolto innumerevoli viaggiatori assorbendone usi e costumi e, perché no, anche difetti; d’altronde non può che essere, qualsiasi identità, un coacervo indistinto che tuttavia il tempo con pazienza ricuce in un ordito destinato a caratterizzare questa o quella realtà. A brandelli, se non in frammenti, quella spesso sofferta identità riesce tuttavia, anche se gradualmente, a emergere, rendendola sfaccettata e quindi, appunto, complessa.

Cos’è il mare per Messina? Sicuramente un elemento di contraddizione se è vero che, come scrive Jorge Luis Borges, ogni mare “unisce e divide”. Ossimorica, pertanto, la condizione degli abitanti di questa città i quali, se da una parte guardano al Continente che infonde loro lo spirito del viaggio, e dunque dell’alienazione dall’isola, dall’altra, come tutti i siciliani peraltro, godono appieno della propria sublime “isolitudine” – come la definì Gesualdo Bufalino in “Isola nuda” (1988). Attrazione e repulsione verso la fuga dalla propria condizione insulare convivono pertanto in ciascun siciliano che si rispetti, improntandone gesti, pensieri, modi stessi di vivere ed essere.

Ma in cosa, lo Stretto di Messina, suo “mare” per eccellenza, si discosta dagli altri mari di Sicilia? Quali le caratteristiche peculiari che ne fanno “voce” di Messina, alfiere dell’identità urbana, essenza stessa della città? Una di queste caratteristiche è certamente il mito – l’etimo è greco, significa racconto – dal quale le acque dello Stretto sono intrise fin da epoca immemorabile. Un racconto cui hanno dato corpo le fiorite leggende della classicità – poemi omerici in testa, ma anche Esiodo con la sua “Teogonia” che narra le peripezie da cui originò la Falce, luogo dov’era ricaduta dopo che con essa Crono evirò il padre Urano, dio del cielo, responsabile del sistematico eccidio dei figli avuti dalla dea della terra Gea.

E cos’è in fondo il mito se non un tentativo di fornire risposte agli eterni interrogativi dell’uomo? Mito è dunque lo Stretto e, con esso, il mare Mediterraneo, l’antico “Marenostrum” da cui traggono origine ed essenza le innumerevoli civiltà che vi sono rimaste stratificate impregnando di sé una terra vocata al passaggio del mondo conosciuto per le sue azzurre sponde.

“Un sogno fatto in Sicilia” – ci suggerisce Leonardo Sciascia – è la panoplia di leggende che infiorano le

azzurre acque dello Stretto, il mare d’Ulisse che, facendo rotta verso Itaca, vi compì un ardito attraversamento infestato dalle maliarde Sirene e dai gorghi impetuosi di Scilla e Cariddi.

“Omero è stato qui” titola Nadia Terranova una sua recente pubblicazione che narra un rosario di miti risalente ai tempi più remoti, quelli, per intenderci, che Esiodo ha descritto nella sua “Teogonia”. E non a torto. Il più grande Aedo della classicità non poteva non aver spiegato le vele sulle onde del “Bosforo d’Italia”, come lo chiameranno, molti secoli dopo, Edoardo Giacomo Boner e Salvatore Quasimodo cogliendone l’analogia con il canale che attraversava l’antica Costantinopoli. Omero è stato qui, non c’è dubbio; con lo sguardo profondo del non vedente e con il cuore pulsante del poeta, egli ha inventato un mondo che non poteva riconoscere attraverso gli occhi, ma che gli è entrato direttamente nell’anima dando corpo alla sua ispirazione.

E come non associare, a quella del mito, la figura dell’eroe? Eroe come proiezione delle più elevate virtù dell’uomo, espressione del coraggio di vivere sacrificandosi, se è il caso, per il bene e la salvezza degli altri.

Come ci insegna, peraltro, il mito di Colapesce,

mirabile fusione tra immaginario popolare e scienza. Cos’è, difatti, la leggenda dell’uomo-pesce se non il tentativo di spiegare quei particolari fenomeni naturali che prendono il nome di sommovimenti tellurici, così comuni dalle nostre parti? La colonna che sorregge capo Peloro è instabile da sempre, ed è soltanto grazie all’impegno eroico di un povero pescatore che questo lembo di Trinacria non è ancora sprofondato negli abissi. Succede però, a volte, che l’eccessivo carico faccia vacillare Cola ed ecco che la terra sovrastante comincia a vibrare pericolosamente, ecco arrivare i terremoti. L’ultimo, il più disastroso, sorprende centomila messinesi nel sonno, cambiando in pochi secondi la loro esistenza.

Sono passati più di cent’anni, e la storia di Messina continua. Come continua quella della Sicilia, il “divino triangolo” – come lo definì Pitagora – che racchiude ancora tanti affascinanti misteri. Uno di questi, forse il più intrigante, consiste nella straordinaria forza dei siciliani di ricostruirsi. Eppure, essi navigano da millenni su una precaria “arca di sasso” (citando Gesualdo Bufalino) soggetta alle tempeste e pronta a colare a picco da un momento all’altro.

I siciliani non temono quest’evenienza perché sanno che possono sempre contare sui propri eroi. Su quegli

uomini di tutti i giorni i quali, in silenzio, lontani dai riflettori, ricuciono pazientemente la tela smagliata dei loro sogni. A dar loro forza è l’amore per la propria terra la quale, malgrado ogni distruzione, è riuscita finora non solo a mantenersi a galla ma a continuare a brillare come un faro di bellezza nel mondo.

E non è forse questo il più bel mito che abbia mai abitato la terra di Sicilia fin dalla notte dei tempi?