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“Messina tra macerie e incanti”: Resilienza vegetale

“Messina tra macerie e incanti”: Resilienza vegetale

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di Giuseppe Ruggeri

“Messina tra macerie e incanti” di Giuseppe Ruggeri, con prefazione a cura di Sergio Di Giacomo, è una raccolta di articoli, conferenze e introduzioni che l’Autore ha collazionato e stampato in proprio, per offrire ai lettori uno spaccato di vita cittadina ripercorso attraverso personaggi, libri ed eventi della sua storia. Ma anche attraverso i numerosi musei, presenti in città e dintorni, testimoni della memoria cittadina. Una memoria segnata da grandi catastrofi ma pure dalla tenace volontà di risorgere dalle proprie ceneri dopo ogni disastro.

Parecchie ancora, a Messina, le “macerie” di tante distruzioni, dietro le quali, però, occhieggiano altrettanti “incanti” che un occhio innamorato, come quello dell’Autore, non può non cogliere e far assurgere a simbolo dell’auspicato rinascimento di un’Urbe che fu un tempo – così come la definirono i nostri padri Latini – “civitas locupletissima”.


Altri terremoti, dopo il 1908, hanno violentato l’anima della città. Palazzi, chiese e monumenti sventrati dall’incuria e trasformati in “macerie” senza neppure la dignità di un nome che ne trasmettesse ai posteri il ricordo. Anche l’ex-ospedale “Regina Margherita”, costruito nel 1930, è ormai una delle tante pietre di quella città dimenticata con cui noi messinesi non vogliamo ancora fare i conti. E, come ogni pietra che si rispetti, pure questa fatiscente struttura affacciata sullo Stretto ha una sua mesta solennità nel suo ergersi in mezzo al degrado e al pattume che la avvolgono. Nel suo cortile interno, un perimetro sfregiato dall’incuria ove sembra ancora di assistere all’assordante viavai delle ambulanze, un albero ruba la scena. E’ un grande “Ficus Magnoloides”, e il verde scuro del suo fogliame crea un potente contrasto con l’azzurro del mare sormontato dal profilo della Lanterna opera di Angelo Montorsoli. Un monumento, non meno che le altre pietre di cui si diceva, ma con la caratteristica d’esser cosa viva, dotata di radici che si ramificano nel sottosuolo e dalle quali la pianta trae alimento

per mantenersi in vita. Per resistere.

Ecco, io penso che noi messinesi dovremmo prendere esempio dalla resistenza del “Ficus magnoloides” per evitare di farci sommergere dal degrado e dal pattume che ci circonda. Quest’albero sontuoso, la cui presenza s’impone nel silenzio dell’abbandono, è un pezzo di storia della città; una storia che ha conosciuto momenti gloriosi, lustro e civiltà e che adesso sembra non esserci mai stata, tale è l’abbandono in cui versano le sue testimonianze più nobili.

Che sarà dell’ex-ospedale “Regina Margherita”? In attesa di saperlo, marcisce sotto il sole e la pioggia questo giacimento di memorie sbiadite, lasciate sempre più scivolare nel gorgo del tempo.

La cosa certa, però, è che qualsiasi tentativo di recupero e riqualificazione non potrà mai prescindere dalla valorizzazione del suo maestoso gigante vegetale.

Altro e più antico esempio di resilienza vegetale è il robusto “Ficus Magnoloides” piantato nel 1890 nel parco di Villa De Gregorio. Villa De Gregorio, edificata presumibilmente agli inizi del XVIII secolo (è già presente in una stampa di Paolo Filocamo risalente al 1718) rappresenta un fulgido esempio

d’arte barocca siciliana. Aveva un giardino ricco di sedili intagliati, nicchie con statue sormontati da eleganti decori rococò, scale e fontane artistiche, le quali disegnavano un percorso culminante nella scenografica gradinata che conduceva all’ingresso principale.

La Messina del Settecento era meta di flussi turistici diametralmente opposti, per tipologia e portata, dal “mordi e fuggi” odierno: vi convogliavano letterati, artisti e scienziati che si recavano in Sicilia per attingere ispirazione dalla bellezza del suo patrimonio culturale e architettonico, oltre che per l’unicità dei suoi aspetti naturalistici e paesaggistici. Il “Grand Tour” siciliano lasciò testimonianze d’indubbio rilievo in tal senso, consistenti in una ricca messe di stampe, litografie e opere d’arte ritraenti città, borghi e dintorni di un’isola la quale, pur se periodicamente violentata da sismi e catastrofi, è sempre riuscita a risorgere dalle proprie ceneri. Così avvenne anche all’alba dello spaventoso terremoto del 1693 che devastò il Val di Noto, quando buona parte della Sicilia Orientale fu letteralmente riedificata dai grandi maestri del Barocco.

Giunto a Messina nel 1787, qualche anno dopo il successivo e non meno rovinoso terremoto che nel

1783 l’aveva rasa al suolo – il poeta e scrittore tedesco Wolfgang Goethe visitò Villa De Gregorio durante la sua permanenza in città – ove soggiornava a Palazzo Brunaccini, come peraltro documentò nelle pagine del suo “Viaggio in Italia”.

Non poteva certo immaginare Goethe, che tanto apprezzò Messina e il suo scenografico affacciarsi sullo Stretto – il “Fretum” della mitologia classica – che, in capo a qualche secolo, la splendida dimora che aveva certo contribuito alla formazione del suo giudizio secondo cui “la Sicilia è la chiave di tutto”, sarebbe stata ridotta a un ammasso di rovine dal più spaventoso dei sismi: quello dell’incuria umana.

Così è stato, infatti, per i resti di Villa De Gregorio offesi dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale e mai recuperati nonostante la persistenza di pregevoli avanzi dell’abitazione e del parco circostante. Donata dall’ultimo proprietario al Seminario Arcivescovile nel 1954, la villa fu ceduta alla Società Trinacria nel 1960 e, a distanza di dieci anni, nella sua area fu costruito un villaggio volano. Il successivo risanamento cancellò la gran parte delle strutture superstiti. Di queste strutture, rimane oggi il muro di cinta con elegante porta del tardo Settecento, resti di fabbricati rustici e la cappella di famiglia.

Il parco interno, che ospita il grande “Ficus Magnoloides” di cui si diceva all’inizio, è ormai quasi del tutto infestato, e a tratti sommerso, dalla disordinata vegetazione che lo ricopre come uno spesso velo d’oblio.

Negli anni Ottanta, l’IACP (Istituto Autonomo Case Popolari) erige in un’area confinante tra viale Aranci e viale Giostra un complesso edilizio, nel cui muro di recinzione viene (sic!) inglobato il magnifico portale settecentesco.

L’11/04/2021 hanno inizio i lavori di riqualificazione dell’area destinata a diventare un parco urbano intitolato proprio alla grande Magnolia. La consegna, prevista dopo diciotto mesi, in realtà non è mai avvenuta. Dapprima per un problema di smaltimento di rifiuti speciali, in seguito (2013) per una richiesta di rielaborazione del progetto a tutela della magnolia e dei resti della villa formulata dalla Soprintendenza, la realizzazione del parco non vede la luce. Un milione ottocentomila euro rimasti nel cassetto in attesa di rimuovere non si sa bene quali insormontabili pastoie burocratiche. Tra queste ultime, il passaggio di competenze tra lo IACP e l’ARISME, la società mista municipale che dovrebbe intestarsi la finale attuazione del progetto.