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PROF. GIULIO TARRO
Prima di addentrarmi nel tema della mia relazione, una telegrafica precisazione. Capita ancora oggi di sentire descrivere Internet – e in particolare il suo più importante social: Facebook – come una sentina di superficialità, inesattezze, deliri… proferiti da lestofanti che abbindolano i loro devoti seguaci con cialtronerie scientifiche e presunti rimedi “medici”. Indubbiamente, la Rete – e in particolare Facebook – è anche questo. Ma volerla ridurre solo a questo significa ignorare che – secondo una indagine GFK Eurisko del 2016 – sono circa 11 milioni e mezzo gli italiani che utilizzano internet per cercare informazioni sulla salute in maniera costante e sempre più spesso attraverso i social media. Social media, comunque, ancora poco utilizzati dai medici italiani; solo il 7%, infatti li usa per confrontarsi con i colleghi, contro il 18% europeo e il 69% statunitense americano.
Ugualmente interessanti sono i risultati di un’indagine condotta nel 2018 da Christopher Warden per conto della la Referral-MD, la più grande azienda USA di strategie web nel campo della Medicina:
1) Il 19% dei possessori di smartphone ha almeno un’applicazione healthcare sul proprio telefono;
esercizio fisico, dieta e perdita di peso, controllo del diabete sono le tipologie di app mobile più
diffuse.
2) Più del 40% degli intervistati ha affermato che le informazioni trovate attraverso i social media
influenzano il modo con cui affronta i problemi relativi alla salute.
3) La fascia d’età compresa fra i 18 e i 24 anni è 2 volte più propensa rispetto alla fascia d’età fra i 45 e i 54 anni, ad utilizzare i social media per discutere di argomenti relativi alla salute.
4) Il 90% dei 18 – 24enni ha affermato che si fida di informazioni mediche condivise da altri all’interno dei social media.
5) Il 31% delle istituzioni sanitarie statunitensi ha redatto specifiche linee guida per l’utilizzo dei social media.
6) Il 54% dei pazienti ritiene positivo che coloro che forniscono assistenza ai malati acquisiscano informazioni relative al miglioramento delle condizioni dei malati attraverso le community online.
7) Il 31% del personale sanitario utilizza i social media per creare relazioni professionali.
8) Il 41% delle persone afferma che i social media potrebbero influenzare la loro scelta riguardo il proprio medico, riguardo un ospedale o una struttura sanitaria.
Ma l’interazione web-Medicina si manifesta ancora di più considerando l’importanza crescente delle Community online costituite da persone affette da patologie come il diabete o i tumori nelle quali, spesso, riescono a trovare anche quel supporto psicologico che queste patologie richiedono. Community online che non possono, certo, sostituirsi al rapporto con il medico, ma che possono suggerire tutta una serie di informazioni non strettamente cliniche certamente utili per affrontare il decorso della malattia. Va da sé che molte istituzioni sanitarie – ad esempio, l’OMS o alcune Associazioni mediche statunitensi – hanno creduto di poter, diciamo così, “regolare” la discussione all’interno di queste community online creandone delle proprie e facendole moderare da un proprio medico, autorizzato, oltre che ad intervenire, anche a “bannare” (e cioè cacciare via) pazienti o che proponevano cure considerate non ortodosse o che chiedevano di mettere all’indice farmaci da essi ritenuti inutili o dannosi. Il risultato è stato, ben presto, lo sfaldamento di questi gruppi con il conseguente abbandono di molti pazienti-utenti. Il perché di questo inaspettato fallimento è da ricercare, sostanzialmente, oltre che nella diffusa diffidenza verso una Medicina che si ritiene asservita a Big Pharma, soprattutto nella incapacità da parte della “Medicina ufficiale” di comprendere come queste comunità on line abbiano una notevole capacità di autoregolarsi. Una community online fatta di malati, infatti, non funziona come un qualsiasi gruppo Facebook dove chi la spara più grossa si tira dietro tanti commenti da far salire il post in cima conquistando così visibilità. No. Questo tipo di comunità, per chi avesse la pazienza di studiarsele, rivelano un livello di discernimento, solitamente, davvero notevole.
Tra i fondamentali studi sull’efficacia delle community online per favorire una corretta informazione sanitaria quello di Damon Centola, docente alla Sloan School of Management del Massachusetts Institute of Technology. Gli esperimenti condotti da Centola su una comunità virtuale di circa 1.500 persone arruolate, hanno documentato che gli utenti erano tanto più propensi ad adottare comportamenti salutari, quanto più fitti erano i contatti delle reti sociali che frequentavano. Inoltre, maggiori sono le amicizie create anche al di fuori della solita rete di amici, maggiore sarà la diffusione del messaggio che vogliamo condividere. Permane, comunque la questione del cosiddetto “confirmation bias” e cioè, quel meccanismo in base al quale si è portati a leggere e a credere soltanto a quei “post” o ai quei “tweet” che confermano convinzioni già consolidate.
Forse anche per questo – così come documentato dall’Osservatorio Innovazione digitale in Sanità del Politecnico di Milano – il numero di Aziende sanitarie dotate di (o che supporta) articolate reti di community online sono davvero poche. Nel 2016, ad esempio, secondo la ricerca “Curarsi con Dr Google Percorsi di informazione, conoscenza ed empowerment del cittadino sardo sui temi della salute su Internet e i social media”, sviluppata presso l’Università di Sassari, solo il 53% delle Aziende socio sanitarie territoriali si erano dotate di efficaci iniziative web dotate, cioè, di una vera strategia finalizzata a coinvolgere attivamente ed aumentare la consapevolezza di cittadini e pazienti.
Un esempio di riferimento in tal senso viene dal Massachusetts General Hospital di Boston che, nel 2017, ha lanciato una campagna di sensibilizzazione attraverso community online avente come obiettivo la diffusione dei programmi di screening per il tumore, in particolare al polmone. Grazie a questo progetto è significativamente aumentato il numero di soggetti che si sono sottoposti ad analisi di controllo, soprattutto tomografie. L’aspetto più rilevante di questa campagna – durata di 20 settimane – è che queste tomografie hanno alimentato una successiva campagna di informazione che ha ottenuto risultati sorprendenti: per quanto riguarda le TAC, ad esempio, si è passati da una media di 7 a 20 a settimana, per arrivare a 26 al momento della chiusura del progetto stesso. Sorprendente è stato anche il numero di visite che le pagine del sito dedicate al tumore al polmone hanno ricevuto: si è passati da una media di 51 a ben 824 a settimana.
Un aspetto certamente rilevante è come l’irrompere del web rischi di stravolgere quel rapporto tra paziente e medico; rapporto già incrinato in quanto, sempre di più, il medico viene visto come un mero e frettoloso dispensatore di farmaci. Di certo non aiutano a ripristinare questo rapporto iniziative come il cosiddetto “ambulatorio virtuale” – entro il 2018, dovrebbe sbarcare anche in Italia – nel quale, così come recita la pubblicità “con un click, si risparmierà la fila davanti alla porta dello studio medico” il tutto per “abbattere i costi della sanità privata". Né, tantomeno, Google – che già oggi correda di un box con info e scritte “verificate da un team di medici” molte informazioni che indicizza – che ha annunciato la creazione di un servizio videochat per fare incontrare “medici e pazienti”.
Concludo accennando alla davvero scabrosa questione del rapporto tra Internet, social media e vaccinazioni obbligatorie; un fiume in piena che ha travolto medici che hanno avuto l’ardire di esprimere – anche come me, attraverso un libro di recente pubblicazione – alcune perplessità non già sul valore delle vaccinazioni ma sulle modalità di una assolutamente inedita campagna vaccinale.
Intanto, qualche dato ripreso da una ricerca dell’Health Web Observatory “I vaccini per l’infanzia sul web” (febbraio 2018) sui comportamenti delle persone in rete nei tre mesi successivi all’entrata in vigore dell’obbligo vaccinale e che hanno visto Il 44% dei genitori di bambini in età da vaccino cercare informazioni sul web, soprattutto sui social media (su Twitter il 31%, su Facebook il 20%), a fronte del 40% relative a siti web, sopratutto siti di informazione di tipo generalista (85%), molto meno (5%) siti istituzionali.
Secondo questa ricerca, i protagonisti delle navigazioni sono soprattutto genitori (il 30% ha un’età compresa tra i 45 e i 54 anni e il 23% tra i 35 i 44 anni). Per quanto riguarda le opinioni espresse sull’obbligatorietà delle vaccinazioni il 44% è prevalentemente negativa, il 40% interlocutoria il 16% positiva; la ricerca, comunque, evidenzia che sui due canali “social più rilevanti” – oltre 3milioni e 300mila utenti su Twitter e oltre 1 milione e 100mila su Facebook – risultano prevalenti le opinioni positive, soprattutto a partire dal settembre 2018 dopo la promulgazione della circolare del Ministero della Salute che prevedeva l’autocertificazione o la semplice prenotazione del vaccino per poter far accedere a scuola i propri figli. Tra i punti più intriganti della ricerca dell’Health Web Observatory è lo studio di come i cosiddetti top influencer, polarizzino intorno a sé i post su Twitter e su Facebook; studio che evidenzia come il cosiddetto “fronte Pro vax” si alimenti essenzialmente delle opinioni di pochi “esperti” mentre il cosiddetto “fronte No vax” si direbbe alimentarsi di una più vasta gamma di opinioni.
Desta, comunque perplessità un aspetto della ricerca che si direbbe inglobi come “bufale” (o “fake”) le argomentazioni che supportano le opinioni critiche espresse sui social inerenti la campagna vaccinale. Una posizione che rischia, tra l’altro, di riverberarsi sul progetto della Commissione europea Hon-code (Health on the Net Foundation) mirato a valutare la qualità dei siti dedicati alla medicina e alla salute per i quali viene previsto una sorta di “bollino di qualità”.
Ugualmente discutibile è poi la pretesa di etichettare come “No Vax” un movimento scandito da almeno quattro distinti filoni di pensiero. Il primo rifiuta una medicalizzazione ab origine, preferendo affidarsi alle regole di un naturalismo originario fondato su precise regole di vita e di alimentazione; il secondo è legato alla denuncia di presunti “complotti” di tenebrose logge o (probabilissimi) imbrogli portati avanti da lobby farmaceutiche; il terzo è connesso alla mera paura di danni irreversibili alla salute legati alle vaccinazioni; il quarto si limita a contestare alcune modalità delle campagne vaccinali. Questo ultimo filone meriterebbe, a mio parere, una grande attenzione da parte del mondo medico anche per il contributo che potrebbero dare all’avanzamento della ricerca scientifica.
Prof. Giulio Tarro
Primario emerito dell’ Azienda Ospedaliera “D. Cotugno”, Napoli
Chairman della Commissione sulle Biotecnologie della Virosfera, WABT – UNESCO, Parigi
Rector of the University Thomas More U.P.T.M., Rome
Presidente della Fondazione de Beaumont Bonelli per le ricerche sul cancro – ONLUS